Caro Giovanni, il vero ventenne è il Partito che non c’è

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Non conosco molto di Giovanni Negri, seppure ne abbia sempre sentito parlare come uno dei più brillanti radicali passati per quel di Torre Argentina.

Ebbene, devo ammettere che, leggendo il suo intervento sulla penosa questione Pannella-Bonino che domina la cronaca da qualche giorno, l’ho trovato il più indovinato e incisivo.

Negri scrive che ai radicali servirebbe un ventenne, un ragazzo o una ragazza normale, un ventenne che studia, lavora, che la politica la sente e la coniuga anche grazie alla propria ordinaria quotidianità. Un ventenne che non vive necessariamente a Roma, che magari non ha mai sentito parlare dei vari Aldo Capitini, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, che non si è forgiato ascoltando le conversazioni di Marco Pannella alla domenica su Radio Radicale, un ventenne che sente di poter contribuire a scrivere il proprio futuro e quello della società in cui vive, una società globalizzata, che evolve e muta a vista d’occhio.

Un ventenne estraneo alle cooptazioni, che faccia e agisca secondo le proprie convinzioni, che non senta il bisogno di impressionare Pannella o chi per esso, un ventenne normale, che non significa per questo ordinario.

Un ventenne – scrive Negri – che creda a un partito dove si parla e si vota.

Ecco, a differenza di altri, credo che Giovanni Negri, nello scrivere quel suo intervento, non abbia pensato neanche per un momento che per rifuggire dalla disgrazia in cui versano i radicali possa bastare un semplice ventenne, magari un mini Pannella, bensì che quel ventenne sia proprio il Partito che ad oggi manca e, per quanto mi riguarda, credo sia sempre mancato.

Pannella non ha mai smesso di rivendicare la proprietà economica, ideale, politica del movimento radicale, quel famoso autobus su cui tutti possono salire – pagando il biglietto – ma che alla fine è e rimane suo. Anche per questo le sue recenti esternazioni su Emma Bonino non credo debbano stupire più di tanto, poiché si limitano a ribadire quello che era già sotto gli occhi di tutti. Il Partito Radicale, nelle sue varie accezioni, non è mai stato un movimento democratico, legalitario, in stile anglosassone, bensì è stato un movimento personalistico, carismatico, per certi versi illuminato, ma saldamente affondato nel sistema Italia, quell’Italia che ha bisogno di un leader, di un capo, di un pastore da seguire e magari idolatrare, qualcuno che indichi la via e infonda sicurezza al gregge.

A differenza di quello che si potrebbe pensare, non ho mai visto negativamente questo aspetto di Pannella, per quel poco che ho potuto conoscerlo mi è semplicemente sembrato un uomo caratterizzato da un indomabile egocentrismo, abituato ad essere considerato un visionario, un rivoluzionario, qualcuno sopra la media e il suo recente sfogo sulla Bonino credo sia lì a dimostrarlo. Il pressante bisogno di ribadire – qualora non fosse già chiaro – chi è che ha creato chi, lui l’ha messa al governo, sue sono le battaglie radicali a cui lei al massimo ha partecipato, lui l’ha scoperta quando non era ancora nessuno.

Eppure la storia è lì a testimoniare quanto fatto da Pannella e dai suoi vari compagni di viaggio, negargli un ruolo da protagonista nella storia politica italiana ed internazionale sarebbe non solo scorretto, ma anche falso. Quello che mi sorprende, in realtà, sono le persone che vivono al suo fianco, che incessantemente ne richiedono l’attenzione, che si nutrono della sua approvazione, che si accontentano di accompagnare e sostenere Pannella nelle sue idee, senza se e senza ma, considerandosi così a loro volta parte di un progetto illuminato, rivoluzionario, visionario. Insomma, una sorta di santità per osmosi.

Da agnostico dichiarato fatico purtroppo a credere nelle divinità, nei super uomini, nei leader.

Per questo credo che l’appello di Negri sia ad oggi il più indovinato. Invocando un ventenne Negri invoca una rinascita, l’evoluzione dal movimento di uno a quello di ognuno, la casa politica senza ideologie e tantomeno ideologi.

Immaginare quel partito non significa andare contro Pannella, bensì rifiutare l’idea che un’esperienza politica possa esaurirsi attorno ad una persona, significa rivendicare la possibilità di decidere, di partecipare attivamente e non solo passivamente alla vita politica, di anteporre le idee alle persone.

Per il prossimo Congresso di Radicali Italiani sogno esattamente questo: un radicale che abbia la forza di farsi testimone di un rinnovamento, che non tema il confronto con il passato, che si possa tornare a fare politica sulle idee e i progetti, che si possa discutere, votare, decidere. Un movimento che non possa essere tenuto in scacco dai debiti, dai ricatti morali (“o fate così o me ne vado!”), dalla sede, dalla radio. Se le idee, così come le persone, diventano un peso che si torni a fare politica tra la strada, che si affitti una sede magari meno prestigiosa, in provincia, che alla radio si contrappongano nuovi strumenti più veloci, interattivi ed efficaci nel garantire la partecipazione. Che si garantisca un futuro a questo movimento, fatto di idee, di esperienze, di persone.

Le parole di Pannella credo puntino proprio a questo, lui la sua rivoluzione, nel bene e nel male, l’ha già compiuta. Tocca ora a noi fare la nostra, con o senza Marco.

D’altronde, quando quel momento arriverà, non credo ci sarà posto per tutti nella piramide.

Announo e il processo alla rete: tutti colpevoli

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I valori, i genitori, lo Stato, la mancanza di leggi, il branco, le multinazionali: ieri sera, al processo alla rete andato in onda ad Announo, non si è salvato nessuno.

Insomma, fuori il colpevole, ci sarà qualcuno responsabile delle vittime del cyberbullismo, degli insulti a Belen, dei ragazzi cinesi che per non mettere in pausa i videogames si dotano di pannolone maxi.

Per il manettaro Di Pietro servirebbe una Authority, anzi no una bella legge (apparentemente in Italia ne manca sempre una), anche se sembra non aver considerato che difficilmente una legge nazionale potrà mai porre vincoli reali ad un fenomeno globale ed interconnesso.

Lo stesso vale per la proposta di chiudere i siti colpevoli, basti ricordare la lotta alla pirateria musicale di qualche anno addietro, quando si pensò che per frenarne il dilagare bastasse prendersela con il principale responsabile, Napster: risultato? Nessuno, la musica si scarica ancora gratis e in maniera ancora più facile.

Internet andrebbe forse visto per ciò che è, un flusso di informazioni il cui contenuto è esclusivamente nella responsabilità degli utenti. L’idea di prendersela con i giganti del web nasconde solo la ricerca esasperata di un colpevole, qualcuno a cui addossare il nostro vero limite, ossia l’incapacità di comunicare con gli altri.

Internet ci ha offerto la rivoluzionaria possibilità di entrare in contatto con un’immensa rete di persone, un megafono attraverso cui urlare al mondo i nostri pensieri, ma anche di mostrare un’immagine di noi come vorremmo che fosse, frutto di un’attenta selezione di frammenti di vita, foto, pensieri, condivisioni che possono sempre essere modificate, ritoccate, cancellate. Ecco allora che la condivisione di una foto privata, di un video, di un momento della nostra vita reale può rappresentare la distruzione di quell’immagine virtuale, mostrandoci alla rete per ciò che realmente siamo.

Pensare che un soggetto terzo – lo Stato, una Authority, Google – possa preservarci da tutto ciò non solo è utopistico ma anche pericoloso: significherebbe consegnare nelle mani di qualcuno il potere di determinare cosa sia giusto e cosa sbagliato, cosa sia offesa e cosa sia critica, il tutto in nome di una morale e di valori dei quali non se ne capisce bene né il contenuto né l’effettiva condivisione tra gli utenti.

Proprio in nome di quella morale Belen ci ha raccontato del dolore provocatole da quelle centinaia di utenti che le rivolgono i più disparati e gratuiti insulti, ma in nome del quale lei, in diretta tv, giudica Silvana, giovane ragazza napoletana, rea di “vendersi in modo squallido” per il fatto di inviare video e foto osé ai propri followers in cambio di ricariche telefoniche e regalie varie.

Eppure per alcuni anche le sue foto seminuda, i video in lingerie messi in pasto di milioni di arrapati utenti rattristano, scioccano o indignano. I moralismi, come la bellezza, sono per definizione sempre negli occhi di chi guarda.

Nel processo alla rete l’unico ad averne colto le reali peculiarità sembra essere Zanni, non a caso Presidente di Wikimedia Italia, il quale ha posto tutti davanti l’evidenza che a determinare limiti e contenuti della rete sono necessariamente le stesse comunità di utenti, alle quali è altresì demandato il compito di garantire il rispetto delle proprie regole.

Dietro ogni utente c’è prima di tutto una persona che, come nella vita reale, non potrà mai avere il privilegio di addossare a qualcun altro la responsabilità per le proprie azioni.

Oltre che nella vita reale, anche in quella virtuale, prima o poi, toccherà diventare adulti.

Lettera a Guillaume e tanti altri onesti carnivori

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Guillaume

Caro Guillaume,

Rispondo a te nella speranza di arrivare anche a tutti coloro che, come mi scrivi tu, guardando la puntata di Announo del 21 maggio hanno pensato che fossi lì solo a “rompere il cazzo”.

Nel contattarmi mi hai anche fatto avere il post di un allevatore piacentino, tale Guido Gandelli, il quale, all’indomani della nostra puntata, ha ricevuto un’ispezione dei NAS che ha dimostrato l’assoluta regolarità del suo allevamento.

Ecco, anche solo per questo credo che la puntata di giovedì possa definirsi un successo, poiché è riuscita in un paese come il nostro, fatto di mille regole ma pochi controlli, ad attirare l’attenzione su un tema che dovrebbe essere centrale nel nostro settore agroalimentare: la qualità.

Gli allevamenti in cui ha fatto incursione Giulia ci hanno mostrato qualcosa che non dovrebbe accadere in un paese che ambisce a rivestire un ruolo di eccellenza sui mercati internazionali, un paese che da sempre si fa promotore della tracciabilità della filiera, un paese che è patria dei DOC, dei DOP, degli IGT, nella convinzione di proporre ai consumatori italiani e non prodotti di eccellenza e di qualità senza pari.

Ebbene, quegli allevamenti  che abbiamo visto, con i topi, le ragnatele, gli animali segregati e feriti, le carcasse sparse qua e là non credo rappresentino una qualità esportabile, quel prodotto che raccontiamo basarsi su una tradizione centenaria costruita sul territorio. Tutt’altro, credo rappresentino una presa in giro per quei consumatori che scelgono prodotti italiani credendo di mangiare prodotti di qualità, ma anche per tutti quei produttori che, come il sig. Guido Gandelli, rispettano le regole investendo tempo e risorse, ma subendo la concorrenza sleale di imprenditori furbetti.

Se avessi ascoltato bene i miei interventi, caro Guillaume, avresti sentito che ho parlato di due temi, poi ripresi insieme a Farinetti: sostenibilitàconoscenza.

Gli allevamenti intensivi a mio avviso non sono un modello di allevamento sostenibile per una serie di motivi.

Innanzitutto, se concentrati in un’area geografica, come avviene in Italia dove il 70% degli allevamenti di suini è circoscritto tra Emilia Romagna e Lombardia, costituiscono un’incredibile fonte di inquinamento per l’ambiente, i cui costi per la bonifica e la messa in sicurezza non sono compensati minimamente dall’indotto economico che tale modello di allevamento riesce a generare. Come affermato dalla FAO, notoriamente non proprio un’associazione di pazzi attivisti per i diritti degli animali, “l’evidenza suggerisce che il settore dell’allevamento è la più importante fonte di inquinanti delle acque, principalmente deiezioni animali, antibiotici, ormoni, sostanze chimiche delle concerie, fertilizzanti e fitofarmaci usati per le colture foraggere e sedimenti dai pascoli erosi”.

In secondo luogo per il tipo di nutrimento fornito agli animali, i quali non si nutrono di fieno o erba dei nostri territori, bensì si nutrono di speciali miscele spesso costituti in gran parte da cibo che potrebbe benissimo essere destinato all’alimentazione umana. Uno studio di qualche anno fa ha calcolato che nei soli USA, ogni anno, 41 milioni di tonnellate di proteine vegetali vengono consumate dagli animali allevati, i quali “fruttano” solo 7 milioni di tonnellate di proteine animali da destinare al consumo umano: insomma per ogni chilogrammo di proteine animali prodotte, occorrono circa 6 chilogrammi di proteine vegetali.

A ciò si aggiungano l’immenso consumo di risorse idriche, la deforestazione, la distruzione delle biodiversità, l’aumento dei gas serra, l’impoverimento dei suoli.

Tutte queste, caro Guillaume, ritengo siano argomentazioni che da sole rappresentano non solo l’opportunità, bensì la necessità di dover parlare di questi temi che impattano sulla vita di tutti noi, carnivori, onnivori, vegetariani o vegani.

Ho parlato poi di conoscenza, di consapevolezza di cosa mangiamo e cosa andrebbe mangiato. Ad oggi, gli italiani, grazie ad un’invidiabile biodiversità, alla straordinaria collocazione geografica e climatica, ad una tradizione culinaria centenaria, inconsapevolmente hanno “mangiato sempre bene”, o comunque meglio di altri, così come dimostrato dall’alta aspettativa di vita del nostro paese.

Ciò nonostante, la globalizzazione, il marketing, il consumismo hanno radicalmente cambiato le abitudini alimentari di tutto l’Occidente, Italia compresa. Si mangia di più, si produce di più e la scelta degli ingredienti è passata in secondo piano rispetto al packaging o al gusto.

La mia proposta di introdurre la materia di “Educazione alimentare” in tutte le scuole credo rappresenterebbe un ambizioso investimento sul futuro di noi cittadini e, come conseguenza, del nostro modello agroalimentare. Qui non si tratta dell’imporre un modello rispetto ad un altro, carne sì o carne no, ma di creare conoscenza sul cibo, di sapere come si produce il cibo, di cosa fa bene e cosa fa male, di fornire ai cittadini gli strumenti per diventare consumatori consapevoli e quindi realmente liberi, anche di mangiare carne.

La libertà, caro Guillaume, credo sia davvero il punto centrale: senza informazione, senza trasparenza la nostra scelta come cittadini non sarà mai libera. Saremo semplici consumatori in balia di trend, mode, costumi: “Made in Italy”, “DOP”, “DOC”, “IGT” sono solo sigle vuote se dietro non hanno la forza di essere testimonianza di un territorio, di una cultura, di una qualità che non potrà mai coniugarsi con l’industrializzazione e lo sfruttamento intensivo di colture, terreni e vite animali.

Ecco, gli animali. Ci sarebbero poi anche le condizioni di vita degli animali a cui in tanti non sembrate dare peso. Esseri senzienti dotati di un’intelligenza straordinaria, come la stessa scienza ha ampiamente documentato, ma che preferiamo ritenere stupidi, incapaci di provare quelle sensazioni di paura, terrore, avvilimento per il trattamento a cui li costringiamo.

Hai mai notato che la carne preferita dai bambini d’oggi è spesso quella “senza forma”? Un bambino non mangerebbe mai la lingua, la coda, le cervella, seppure siano tutti piatti pregiati della nostra tradizione culinaria. Il vero segreto del successo di polpette, cotolette, bastoncini di pesce e burgers credo stia proprio lì, nel nascondere quello che realmente rappresentano: vite animali.

Insomma caro Guillaume, che se ne dica, di questi temi credo ci sia un disperato bisogno di parlarne ma se, nonostante tutto, continuerai ad avvertirli come una rottura, fortunatamente, anche in tv, esiste sempre la libertà di cambiare canale.

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I privilegi dei cittadini e il rigore dei parlamentari, le fantasie di Laura Boldrini

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“A un cittadino italiano che ha versato i contributi e poi si è macchiato di un crimine grave, quando esce dal carcere la pensione non gliela leva nessuno. Noi invece siamo più rigorosi. Al parlamentare che pure ha versato i contributi e si macchia di reati gravi, il vitalizio non glielo diamo più.”

così Laura Boldrini, intervistata dal Corriere della Sera, in merito al taglio dei vitalizi per gli ex parlamentari condannati.

Qualcuno dovrebbe spiegare a Laura Boldrini un concetto fondamentale: il vitalizio non è una pensione, è una rendita, a vita appunto. Un privilegio eredità di tempi antichi, di quando effettivamente i rappresentanti venivano considerati cosa altra rispetto ai rappresentati, una rendita che spettava in quanto tale, per il solo fatto di aver messo piede in Parlamento.

Paragonare i vitalizi alle pensioni è quanto di più demagogico si possa fare.

Innanzitutto perché le pensioni richiedono almeno 35/36 anni di contributi previdenziali, in pratica l’intero arco di una vita lavorativa passata a versare obbligatoriamente un terzo del proprio reddito allo Stato. Per i vitalizi parlamentari, invece, fino al 2012 bastava aver messo piede in una delle due camere anche solo una volta per veder maturato il diritto, una volta compiuti 65 anni, ad una sostanziosa rendita (ebbene sì, ne sanno qualcosa Luca Boneschi, Angelo Pezzana, Piero Craveri). Dal 2012 il sistema è leggermente cambiato, sono sì previsti dei contributi (che peraltro è lo Stato a versare a sé stesso!) così come per ogni normale cittadino, ma il diritto alla rendita vitalizia scatta dopo un mandato parlamentare, quindi anche dopo solo 5 anni di contribuzione.

In secondo luogo, la pensione è direttamente proporzionale ai versamenti effettuati, più versi e più alta sarà la tua pensione. Per i vitalizi, invece, l’importo effettivamente ricevuto dipende dal numero dei mandati svolti e dalle eventuali ulteriori cariche ricoperte in Parlamento, con il risultato che a fronte di un versamento di circa l’8,6% di contributi (mentre per i “normali lavoratori” si attesta su circa un terzo del proprio reddito) i parlamentari otterranno un vitalizio che oscilla tra il 20 e il 60% dell’indennità versata.

Last but not least, a fronte di un’unica pensione, le rendite vitalizie possono essere plurime e cumulative, basterà essere stati parlamentari, europarlamentari e consiglieri regionali per ricevere fino a tre diverse indennità, alle quali potrebbe sommarsi anche la pensione ordinaria qualora, parallelamente o precedentemente l’attività politica, l’eletto abbia portato avanti la propria carriera professionale.

Il taglio ai vitalizi per i condannati suona, infine, ancora più demagogico se si considera che il taglio avrà ad oggetto solo i condannati per “reati gravi e gravissimi, mettendo dentro mafia, terrorismo, corruzione, concussione, omicidio” da cui resteranno fuori però l’abuso di ufficio (“è un reato grave, ma non a questo livello” cit. Boldrini) e il finanziamento illecito ai partiti, reati che evidentemente non sono stati ritenuti particolarmente gravi per chi ricopre un incarico pubblico.

Così, mentre i numerosi ex parlamentari macchiatisi di terrorismo e omicidio non potranno fruire della rendita vitalizia, altri notabili del calibro di Claudio Martelli (4.684,19 euro al mese, condannato nell’inchiesta Enimont, con sentenza definitiva di otto mesi, per aver ammesso di aver ricevuto una tangente da 500 milioni di lire), Gianni De Michelis (5.174,79 euro al mese circa, condannato a 4 anni in primo grado, poi ridotti con il patteggiamento a un anno e sei mesi), Giorgio La Malfa (vitalizio da 5.759,87 euro nonostante la condanna a sei mesi per finanziamento illecito ai partiti), Paolo Pillitteri (2.906,11 euro al mese, condannato a quattro anni e sei mesi per ricettazione e finanziamento illecito ai partiti) potranno tranquillamente continuare a godersi il frutto di tanti anni di sudato lavoro.

Cara Laura, l’unica proposta ragionevole sarebbe quella di considerare realmente i vitalizi alla stregua delle pensioni, versando i contributi dei parlamentari all’INPS e quindi al calcolo a fine carriera dell’effettiva pensione maturata. Una proposta simile l’aveva fatta nel 2010 Antonio Borghesi, prof. di economia all’Università di Verona ed eletto con l’Italia dei Valori, risultato? 22 voti a favore, 498 contrari. Più che di trattamenti rigorosi, basterebbe l’uguaglianza, sarebbe già un gran passo avanti.

Cambiare tutto per non cambiare nulla: è in arrivo il Porcellum bis

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“Legge elettorale. Le regole si scrivono tutti insieme, se possibile. Farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato.”  

15 gennaio 2014 – Matteo Renzi, non ancora premier, su Twitter.

Si dirà che già da tempo Matteo Renzi colora il dibattito politico con un vivace camaleontismo che solo il miglior Berlusconi avrebbe potuto superare, memorabile lo “Stai Sereno” indirizzato all’allora Presidente del Consiglio Enrico Letta prima di rilevarne il posto di lì a qualche giorno.

Eppure in questi giorni si decide la legge forse più importante del nostro sistema politico, definita dagli stessi costituzionalisti auditi la scorsa settimana alla Camera come la vera Grundnorm del nostro assetto costituzionale, poiché da essa ne discenderà a cascata l’intero esercizio del potere democratico, dall’organizzazione interna dei partiti alla rappresentatività dei cittadini nelle istituzioni.

Per quanto ne dica Renzi, il testo dell’Italicum presentato alla Camera si fonda però sugli stessi presupposti con i quali si arrivò al tanto odiato Porcellum: unire il meglio e il peggio dei diversi sistemi elettorali esistenti, dagli sbarramenti al premio di maggioranza, dai candidati nominati dalle segreterie di partito al ritorno alle preferenze, un’accozzaglia di innovazioni che risulteranno in una grande confusione elettorale che gioverà solamente ai grandi partiti organizzati.

Dispiace, perché fino a qualche tempo fa Renzi era tra i fautori del sistema maggioritario, magari con tanti piccoli collegi uninominali, in pieno stile anglosassone, così da garantire, da un lato, il ricambio nella selezione dei candidati, che si baserebbe non più sulla fedeltà alle segreterie ma sul consenso maturato sul territorio, dall’altro, l’elezione di persone e non più di uomini di partito, presupposto fondamentale per assicurare una reale rappresentatività dei cittadini.

Più che di memoria corta si dovrebbe allora parlare di una vera e propria questione di coerenza tra quanto promesso e quanto mantenuto, una politica della rottamazione che, una volta fatti fuori i vecchi vertici, si è limitata ad occuparne le posizioni.

Ma si sa, da sempre nel nostro Paese “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.

Luca Toni e le tasse: quando è la Chiesa a fare gol

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500mila euro l’anno (dal 2007 al 2009), maggiorati di circa 200mila euro di interessi per un totale di 1 milione e 700 mila euro. Questa la richiesta presentata dalla Chiesa Cattolica ai giudici tedeschi per l’asserita evasione di Luca Toni dai suoi doveri di fedele cattolico ai tempi in cui militava nelle file del Bayern Monaco.

Sembrerà assurdo, ma in realtà la Chiesa Cattolica da questa storia ne uscirà presumibilmente vincitrice, perché in Germania l’appartenenza ad una religione non è qualcosa da spendersi solo durante le festività comandate o per regalarsi un matrimonio secondo la tradizione, bensì un reale status di appartenenza in base al quale la Chiesa tedesca può imporre il pagamento di una specifica imposta, la Kir­chen­steuer.

A differenza dell’8×1000, che richiede la scelta – seppur secondo uno schema alquanto truffaldino – se destinare o meno una quota delle proprie tasse ad un ente religioso, la Kir­chen­steuer tedesca si basa direttamente sull’eventuale appartenenza del cittadino ad una comunità religiosa, così come registrato all’anagrafe civile.

Risulta così che tutti i battezzati residenti in Germania – quindi anche i cattolici stranieri che si trovino per motivi di lavoro sul territorio tedesco – siano di per sé qualificati come cattolici e per tale motivo soggetti al pagamento della Kirchensteuer, il cui importo varia tra l’8 e il 9% del proprio reddito.

Per coloro che volessero sottrarsi al pagamento, l’unico modo per sfuggire agli esattori ecclesiastici sembra essere lo sbattezzo”, ossia la formale dichiarazione resa all’anagrafe civile in cui si afferma di non voler essere qualificati come cattolici.

A tal proposito però i vescovi tedeschi sono stati chiari: chi deciderà di sottrarsi dal pagamento dell’imposta non potrà avere accesso ai sacramenti durante la messa e alle funzioni dei funerali, potendo peraltro essere scomunicato dalle stesse gerarchie ecclesiastiche. Il concetto appare semplice: “No money? No party!”.

Partito Radicale - ph. Toscani

I regali della politica

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«Non mi sono mai sentito corrotto o condizionato dai regali che mi arrivavano, come arrivavano a tutti» così Fabrizio Cicchitto, già capogruppo del Popolo della Libertà alla Camera dei Deputati e ora in forza a NCD, nel commentare le dimissioni di Maurizio Lupi a seguito della bufera mediatica che l’ha travolto in questi giorni.

I regali di questo o quell’altro imprenditore sarebbero dunque, sempre da quanto dice Cicchitto, non solo cosa nota, ma anche diffusa, tanto che lui neanche se ne sentirebbe toccato.

Vista la quasi quarantennale (!) esperienza parlamentare, sarebbe curioso sapere cosa Cicchitto ne abbia fatto degli innumerevoli regali ricevuti, se li abbia conservati, ovviamente in maniera indifferente e distaccata, oppure se abbia provveduto a restituirli al mittente, così come fece qualche anno fa l’allora ministro Bonino, che nel ricevere una dozzina di capi Armani inviatile da Re Giorgio in persona li restituì a quest’ultimo dopo pochi giorni, nello stupore dello stilista piacentino.

Si dirà che i membri del Governo, così come quelli del Parlamento, non sono in realtà dei dipendenti pubblici e che quindi non si applichi loro il “Regolamento sul codice di comportamento dei dipendenti pubblici” che prescrive il divieto di accettare regalie e l’obbligo di restituire i regali di valore superiore ai 150 euro.

Se ciò è vero, appare tuttavia alquanto curioso il fatto che un politico come Cicchitto, che della politica non è certo un novizio, descriva i regali ricevuti da lui e dai suoi colleghi come una diffusa abitudine, tanto da non sentirsene in alcun modo condizionato, quasi come se quelle stesse regalie siano qualcosa di indissolubilmente legato alla carica ricoperta.

Ed è forse è proprio questo a lasciare attoniti. L’assoluto distacco con cui una parte di classe politica viva il proprio ruolo di eletto – o forse si dovrebbe dire di nominato – una condizione di privilegio tale da consentire di ricevere doni di ogni sorta, senza doversi nemmeno interrogare su chi abbia pagato per tali regali ma soprattutto sul perché qualcuno abbia sentito l’esigenza di inviare loro un regalo.

Tale distacco deve necessariamente leggersi come un fallimento democratico, perché se un uomo politico non sente l’esigenza di doversi giustificare, significa che di fondo non sente neanche l’esigenza di dover rendere conto a qualcuno, tantomeno a chi lo ha eletto e ha tutto l’interesse a sapere se e da chi egli riceva elargizioni o regali.

In questo Renzi ha perso una grandissima occasione, lui che da rottamatore ha costruito il proprio successo sul consenso popolare: introdurre anche in Italia, così come nei paesi anglosassoni, un sistema elettorale basato su collegi uninominali. Ogni partito propone un suo candidato in piccoli collegi, chi arriva primo va in Parlamento e ha la responsabilità di essere il rappresentante di un’intera porzione di territorio che lo ha eletto.

La differenza sarebbe abissale: da rappresentanti di un partito si finirebbe con il divenire rappresentanti di una comunità di cittadini.

Pare che per un regalo del genere dovremo ancora aspettare.

Mattarella chi?

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Mattarella

Da qualche giorno un nuovo nome domina l’informazione nel nostro paese: Sergio Mattarella.

Come neanche il Panchen Lama e gli altri monaci buddisti avrebbero saputo fare, Matteo Renzi, in barba ai sondaggi di gradimento popolare che vedono i vari Bonino, Rodotà, Prodi primeggiare, ha visto in lui la reincarnazione di Napolitano e dato il via alle presentazioni con gli italiani che costui dovrà rappresentare.

Pur con tutto il rispetto per Mattarella, che della politica non è certo un novizio, in quanto noto figlio d’arte (il padre fu più volte ministro e membro della Costituente) e avendo speso gran parte della vita tra Montecitorio e Palazzo Chigi, la sua elezione al Colle è apparsa fin da subito a molti come inaspettata.

Ad ogni elezione quirinalizia ecco ripetersi il mantra del Presidente della Repubblica rappresentante l’unità nazionale, la persona in cui tutti i cittadini possano sentirsi rappresentati e perciò tutelati. Il garante della Costituzione e delle regole a fondamento della nostra democrazia.

Se questo è il Presidente che si sta eleggendo, una premessa su Mattarella andrebbe fatta. In pochi sembrano infatti ricordare che stiamo parlando dello stesso Mattarella che ci lasciò in eredità il fantomatico Mattarellum. Per chi non se lo ricordasse, il Mattarellum fu la legge elettorale scritta a margine del Referendum del 1993 recante “Abrogazione della legge elettorale per il Senato per introdurre il sistema maggioritario” con il quale il 94% degli italiani votanti (circa 35 milioni!) si espressero per introdurre anche nel nostro paese un sistema di elezione chiaro, semplice e davvero rappresentativo: il maggioritario.

A tradire quella chiara volontà popolare fu proprio Mattarella, che introdusse un mix tra maggioritario e proporzionale che di fatto diede nuova linfa vitale ai partiti sopravvissuti a Tangentopoli, una legge che non a caso venne presto definita “il Minotauro” in ricordo del mostruoso essere metà uomo e metà toro. A qualche giorno di distanza dall’approvazione dell’Italicum (altro mostro elettorale) alla Camera, in pochi sembrano ricordare questi fatti. Eppure Mattarella dovrà essere colui pronto a garantire proprio il rispetto delle regole e delle istituzioni.

La speranza è che almeno impari in fretta.

A lezione di giornalismo da Flavio Tosi

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(AH, SUL “NO ALL’EURO” ERA TUTTO UNO SCHERZO)

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” – Noi siamo gli unici ad aver sempre messo l’Europa, e non le questioni nazionali, al centro della campagna elettorale. – A pochi giorni dal voto Flavio Tosi, Sindaco e candidato della Lega (ma in caso di elezione ribadisce che resterà a Palazzo Barbieri), chiama a raccolta i suoi sostenitori.

– Sono sindaco da sette anni, spero e credo di averlo fatto al meglio, con buoni risultati rispetto alla situazione che abbiamo trovato, in termini di sicurezza, turismo, infrastrutture e cultura. Ho quindi dimostrato di aver fatto bene e inoltre chiedo un voto di fiducia per la mia persona. –

– Il voto delle europee dovrebbe essere sull’Europa e sui rapporti con l’Europa ma, a parte la Lega, sia Grillo, sia Renzi che Berlusconi hanno affrontato questa competizione come se fossero elezioni politiche. –

– Il “no euro” è uno slogan propagandistico non realizzabile, […] la priorità per chi verrà eletto al Parlamento europeo sarà difendere gli interessi nazionali, le nostre aziende, la nostra economia e le nostre famiglie, non continuare a prendere ordini. -“

(Enrico Santi su L’Arena, 22 maggio 2014 – clic per l’articolo completo)

Ricapitolando, con un triplo salto carpiato Tosi riesce a chiedere un “voto di fiducia alla persona” annunciando contemporaneamente che in caso di elezione rinuncerà alla stessa per fare posto ad un altro. Non contento, afferma anche che la Lega è l’unico partito in Italia ad aver messo al centro della campagna elettorale l’Europa, quindi, coerentemente chiede di essere votato per quanto fatto da Sindaco a Verona. E poi il botto finale. Il giornalista, rinsavito, osa una domanda scomoda: “euro sì o euro no? Nel simbolo della Lega c’è scritto NO EURO…” Ed ecco che Tosi riesce nell’impossibile: – Il “no euro” è uno slogan propagandistico non realizzabile! – liquidando insomma come pura propaganda l’intero “BASTA EURO TOUR” che vede protagonista il (povero) Salvini che a bordo del suo camper si sta girando non mezza, ma tutta Italia (ebbene sì, anche il Sud)!

Al di là del merito delle dichiarazioni di Tosi, che con questa intervista si guadagna un posto nella Hall of Fame delle supercazzole politiche, la cosa che fa veramente preoccupare è l’asservimento dell’informazione ai poteri forti. Se non fosse per Tosi che riesce nella rara impresa di contraddirsi da solo in ogni frase, l’articolo pubblicato da L’Arena suonerebbe quasi come uno spazio elettorale realizzato volutamente a pochi giorni dal voto. In questo la democrazia italiana mostra tutta la sua immaturità, nella mancanza di una vera informazione in grado di informare. Perché senza informazione, la democrazia resta necessariamente zoppa. Senza informazione i cittadini non possono conoscere e quindi votare consapevolmente. Servirebbe poter “conoscere per deliberare”, così scriveva Luigi Einaudi all’indomani della nascita della Repubblica Italiana. Pare che siamo rimasti dei bamboccioni.

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Alle elezioni io voto Schuman, Monnet e Spinelli

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Sono passati poco più di sessant’anni dal Trattato di Parigi con il quale, con lungimirante previsione, i leader dei paesi europei uscenti dalle tragiche guerre mondiali gettavano le basi per un primo progetto di Europa unita. Paesi storicamente divisi e fino a qualche anno prima acerrimi nemici inauguravano un progetto fino ad allora mai tentato: unirsi nella diversità, nella convinzione che una maggiore integrazione avrebbe impedito il germogliare di nuovi nazionalismi e di ambizioni totalitarie, sulle macerie di quello che restava del Vecchio Continente.

Sono passati poco più di sessant’anni, nel tempo a quei sei temerari Paesi se ne sono aggiunti ventidue altri, tutti inizialmente affascinati dalle grandi possibilità economiche che quel mercato unito sembrava poter garantire, ma via via dall’integrazione, dalla condivisione delle politiche nazionali si è capito che di quell’Europa sarebbe potuto essere molto di più. Gli Stati Uniti d’Europa, la patria europea intesa non nel suo senso tradizionale, di nazione, di un unicum culturale, bensì la sua esatta antitesi: l’unione nella diversità, nella pluralità di idee, esperienze, lingue, etnie, religioni. La diversità come occasione di arricchimento, l’esempio pratico forse più rivoluzionario e anticipatore della società globalizzata che a cavallo del secondo e terzo millennio avrebbe inaugurato un mondo radicalmente nuovo, costantemente connesso e interdipendente, in maniere che fino a qualche decade fa sarebbero state impensabili.

Sono passati poco più di sessant’anni, alla patria europea si è sostituita l’idea di Europa delle patrie, il concetto più antico e inadatto a governare le dinamiche di una società mondiale in cui l’Europa possa trovare un suo slancio di fronte al risveglio dei giganti mondiali, della Cina, dell’India, della Russia e del Brasile. Miliardi di persone, territori sconfinati in cui la goccia europea si perde in mari dalle storie antiche e dalle gloriose ambizioni. Un’Europa incapace di cogliere l’avanzare di nuove realtà globali, di vite, di storie che dopo secoli di oscurità, di dover guardare da colonia all’Europa dei colonizzatori, hanno trovato ora la forza e l’unità per rilanciarsi nel panorama internazionale in cui vogliono legittimamente poter dire la loro. Così che mentre in Siria continua la sanguinosa repressione dei ribelli, l’Europa resta a guardare timorosa di dover superare il veto russo e cinese. La Crimea, pezzo di Ucraina che proprio nella sua voglia di aderire al progetto europeo aveva messo a ferro e fuoco Kiev, passa nelle mani della Russia, antico padrone mai dimenticato, e davanti il quale le deboli istituzioni europee balbettano un timido dietrofront.

Sono passati poco più di sessant’anni e domenica si eleggerà nuovamente la composizione del Parlamento europeo. In Italia, uno di quei sei temerari che nel 1951 diede vita al primo progetto di Europa unita, si presenteranno una serie di liste, quasi tutte unite da intenti volti a chiedere meno Europa, a favore di maggiori politiche nazionali. Nell’era della globalizzazione, dell’interconnessione, di un mondo che non dorme mai, il Vecchio Continente vive ancora di ricordi. Di quando, da solo, dominava il pianeta. Di quando i suoi esploratori partivano dalle coste in cerca di terre inesplorate, di risorse da depredare, di terre e civiltà da colonizzare. Occhi antichi, sponde sicure per affrontare un incerto futuro. Eppure quell’idea di uno Stato Europeo ancora vive, la speranza è che a partire da questa domenica si trovi la forza per tornare a costruirlo.